Scrittura
Il popolo di Dio ha sempre impiegato questo termine per indicare la letteratura di cui il Creatore gli ha fatto progressivamente dono.
Grazie alla testimonianza diretta di uomini appositamente scelti e ispirati, con lo scopo di rivelare sé stesso e la sua grazia. Il vocabolo, attraverso il latino scriptura, deriva dal greco graphé (pl. graphaí), la cui etimologia si riferisce più all'atto dello scrivere che al materiale prodotto. Esso evoca pertanto la necessità di lasciare una traccia scritta di qualcosa d'importante che si è vissuto. Così, all'indomani del miracoloso passaggio del Mar Rosso e della vittoria su Amalec, Dio disse a Mosè: "Scrivi questo fatto in un libro, perché se ne conservi il ricordo" (Es. 17:14; cfr. pure Is. 30:8 e Gr. 36:1-4). Perfino un elemento a prima vista poco significativo come l'itinerario degli Israeliti nel deserto venne da Dio ritenuto meritevole di essere scritto (Nm. 33:2).
Ma il senso più profondo del termine risiede nell'assoluto bisogno di mettere per iscritto l'immutabile “debar Yahweh”, la "Parola dell'Eterno" comunicata agli esseri umani, in virtù di una chiara volontà rivelatrice, e intrinsecamente dotata del piacere di farsi conoscere: Il rivelarsi di Dio non è altro che l'espressione esterna di un dialogo d'amore. In entrambi i casi, comunque, non è mai l'uomo che prende l'iniziativa. È invece Dio che sceglie e decide di manifestarsi, per la sua stessa gloria e per l'ammaestramento del suo popolo (Ro. 15:4).
La nozione di "scrittura" è presente anche nell'A. P.: infatti apprendiamo che Daniele, nel primo anno del regno di Dario il Medo, poté capire la durata della deportazione babilonese meditando sui sépher profetici (Dn. 9:1-2). Ora tale termine indica appunto quei documenti scritti (in questo caso, alcune porzioni dei capitoli 25 e 29 di Geremia) che venivano considerati canonici dagli ebrei del VI secolo a.C. Detti sépher si resero disponibili principalmente sotto forma di rotolo (megillàh: Sl. 40:7; cfr. Eb. 10:5-7), e furono scritti sia in colonne (Gr. 36:23) sia da ambo i lati (Ez. 2:9,10). Anche nel giudaismo del I secolo d.C. constatiamo l'utilizzo degli scritti sacri sotto forma di rotolo. Quel rotolo conteneva proprio la divina parola profetica.
Talvolta il sostantivo greco tradotto con "scrittura", tanto nella forma singolare quanto in quella plurale, viene accompagnato dall'aggettivo "santa/sante" (o "sacra/sacre"). È proprio ciò che fece l'apostolo Paolo quando parlò del Vangelo come di una realtà che Dio, fin dai tempi antichi, aveva promesso per mezzo dei suoi profeti én graphais haghíais ("nelle sante Scritture": R0. 1:2) Ancora Paolo, in una delle sue Lettere pastorali, usò l'espressione hierà grammata (Sacre Scritture) per riferirsi alla rivelazione scritta di Dio, l’unica capace di dare “la sapienza che conduce alla salvezza mediante la fede in Cristo Gesù" (2 Ti. 3:15).
Gli autori del N. P. hanno usato graphé/graphaí sia per riferirsi a specifici brani veterotestamentarii (come per esempio in Mt. 21:42) citazione del (Sl. 118:22,23) sia per indicare corpus l'intero corpus delle Scritture ebraiche.
Gli scritti dell'A. P. e del N. P., nel loro insieme, hanno sempre costituito per il popolo di Dio un'unità assolutamente organica e inscindibile: "Nell'Antico Patto è celato; nel Nuovo è rivelato”.
Scrittura e Canone
La Scrittura, in quanto rivelazione autorevole di Dio, è degna di essere creduta; inoltre, per il fatto di contenere le precise direttive del Creatore riguardanti la vita della creatura, merita di essere ubbidita. Questo spiega perché, in primo luogo, ci si riferisca a essa come a un insieme di libri detti appunto "canonici" (dal greco kanón: regola, norma). Non fu certo per caso che nel II secolo Ireneo coniò l'espressione kanòn tés aletheías (regola di verità, poi mutuata in "regola di fede" prima da Origene e dopo da Tertulliano) per indicare la piena osservanza di norme atte a definire l'ortodossia della dottrina cristiana. Dunque la Scrittura è, prima di ogni altra cosa, "la norma di fede e di morale data all'uomo per insegnargli ciò che deve credere riguardo a Dio e quali doveri Dio gli chiede" (F.F. Bruce). Il popolo redento, che ha ricevuto questa straordinaria rivelazione e che a essa ubbidisce, sa di costituire una testimonianza certa di saggezza e intelligenza per il mondo (De. 4:5-8).
Il significato derivato di "elenco" di libri, riconosciuti come documenti della divina rivelazione, è sicuramente posteriore e risale a non prima di Atanasio (IV secolo). Qui è il caso di menzionare il "frammento (o canone) muratoriano", così chiamato perché scoperto nella Biblioteca Ambrosiana, in un manoscritto dell'VIII secolo, dal modenese Ludovico Antonio Muratori, il quale lo pubblicò nel 1740: esso contiene il più antico elenco dei libri del N. P. accolti come canonici, ed è verosimile che sia stato redatto verso la fine del II secolo. La chiesa ha sempre saputo di non aver prodotto tale canone con il suo proprio ingegno, ma di averlo ricevuto in modo progressivo dalla munifica mano di Dio.
Il "canone" dell'A. P. (vale a dire i 39 libri che costituivano la Bibbia ai tempi di Gesù) è giunto alla chiesa direttamente da Cristo e dagli apostoli, per i quali era fuori dubbio: 1) che la "nuova Via" presupponeva l'autorità divina delle Scritture ebraiche; 2) che queste ultime risultavano adempiute proprio con l'avvento dell'era cristiana (Mt. 5:17; Ro. 16:25-27; 1 Pi. 1:10-12; 2 Pi. 1:19-21; ecc.). Per quanto concerne il "canone" dei 27 libri del N. P., si può e si deve parlare della stessa sorgente: infatti, è in virtù dello Spirito Santo promesso e inviato da Cristo (Gv. 14:16,17; 16:7) che gli apostoli poterono trasmettere la Buona Notizia messianica (eu-anghélion) quale verità divina, proclamandola tanto oralmente quanto in forma scritta. Come pure fu per l'azione del medesimo Spirito che i credenti, partendo da quella prima generazione, hanno sempre riconosciuto l'autenticità e l'autorità apostolica degli scritti neotestamentari.
Circa l'estensione dell'intero canone, tuttavia, non c'è stato accordo unanime. I protestanti mantennero la lista di 66 libri che si trovava nella Lettera Festale n. 39 di Atanasio (scritta nel 367), in Girolamo e negli atti del concilio di Cartagine (397); il concilio di Trento stabilì, nel 1546, l'introduzione di 12 libri "apocrifi" dell'A. P. all'interno del canone cattolico; il sinodo di Gerusalemme del 1672 decise di fare lo stesso per il canone della chiesa ortodossa, introducendo solo quattro dei suddetti apocrifi (Giuditta, Toaia, Sapienza di Salomone ed Ecclesiastico di Ben Sira, detto anche "Siracide"); Martin Lutero respinse la lettera dell'apostolo Giacomo, definendola com'è noto "un'epistola di paglia". Tutto ciò costituisce, in verità, materia di scarso valore. Infatti, il problema del padre della Riforma era sostanzialmente di natura esegetica, tale da fargli ritenere che l'insegnamento di Giacomo contraddicesse quello di Paolo; mentre i libri cosiddetti apocrifi non intaccano certo la dottrina. Ben più importante è il fatto, indubitabile, che i principi di canonicità siano rimasti costantemente inalterata.